Attualità

La teoria del "piuttosto che" e quel razzismo interiorizzato che ignoriamo di avere

L'aggressione ai danni del dottor Andi Nganso non si può definire altro che aggressione a stampo razzista: è sempre più necessaria una discussione seria su un problema reale che in Italia esiste da sempre

Andi Nganso

Tempo fa un mio amico mi ha raccontato di un ristorante a Saigon dove le persone cenano bendate e al buio e vengono servite da personale ipovedente. Un'esperienza sensoriale, certamente, ma anche di abbandono: si deve essere capaci di provare letteralmente una fiducia cieca nelle altre persone. Persone che si sono formate al meglio non solo per preparare piatti in grado di soddisfare la clientela più esigente, ma anche per fare sentire la stessa clientela accolta e al sicuro. In altre parole, in buone mani. Dopo i fatti accaduti a Andi Nganso, medico di guardia al pronto soccorso di Lignano Sabbiadoro di origine camerunese, ho ripensato a questo ristorante, ai camerieri ipovedenti che mettono a proprio agio clienti ignari rispetto a quello che stanno per mangiare. Ho ripensato a cosa ci fa provare fiducia nei confronti degli altri, a cosa ci fa provare rispetto e a cosa serve per abbattere dei pregiudizi fortemente interiorizzati da farci credere che una persona cieca non sarebbe capace di servirci adeguatamente la cena. Intendiamoci, non voglio paragonare le due situazioni: nel caso di Nganso, infatti, parlare di pregiudizi sarebbe estremamente limitativo. In questo caso non si può far altro che parlare di razzismo. Un razzismo talmente tanto palese ed esplicito da sembrare quasi impossibile, persino a chi lo predica ogni giorno e oggi grida all'emergenza. 

Denunciato l'aggressore del dottor Andi Nganso

Eppure questo è: non un'emergenza ma un dato di fatto. Il razzismo, in Italia, si pratica ogni giorno, da sempre. Sarebbe troppo facile chiedere ai lettori e alle lettrici di semplificare il proprio pensiero collegando gli slogan che si vedono già in giro per la città in vista delle prossime elezioni con quanto successo: non ha senso, in questo contesto, vestire i panni dell'opportunista politico di turno sbandierando il proprio credo.

La politica tutta, anche in questo campo, ha fallito da tempo. Ma qual è il campo in cui ci stiamo muovendo, posto dunque che non si tratta di una discussione politica? A mio avviso è una questione soprattutto culturale, dove manca moltissimo una quanto mai necessaria riflessione approfondita sull'identità. Qualcosa che non si impara semplicemente sui banchi di scuola, ma che si pratica ogni giorno nella quotidianità.

Solidarietà "ma"

L'Ordine dei medici di Udine ha diramato una nota in cui esprime "massima solidarietà al collega di Lignano che si è sentito insultare pesantemente da un utente, senza alcuna motivazione mentre era in servizio". Il comunicato non riporta mai il nome "del collega" (Andi Nganso) e, cosa ancora peggiore, scrive che l'aggressione è avvenuta senza motivo. Eppure il motivo è sotto gli occhi di tutte e tutti, l'abbiamo scritto poche righe più in alto. Si tratta di razzismo. Questa è un'aggressione razzista e che non si trovino le parole per scriverlo in una nota ufficiale dà la misura di quanto il dibattito intorno a questo problema in Italia sia lontanissimo dal trovare una forma. “Condanniamo fermamente questi comportamenti da parte dell’utenza ed esprimiamo solidarietà a questo collega e a tutti gli operatori sanitari che, purtroppo, vivono queste situazioni sempre più frequentemente. Siamo consapevoli del clima di tensione che tutti stiamo vivendo, ma non è accettabile attaccare un medico durante lo svolgimento del suo lavoro con espressioni ingiuriose che offendono tutta la categoria e soprattutto in un periodo in cui il personale sanitario è sottoposto a un forte stress", continua il presidente dell’Ordine, Gianluigi Tiberio.

Tiberio non solo non nomina mai Nganso, ma ne fa una questione di professione, privando il medico della sua stessa identità, quella che lo ha portato a subire questa becera aggressione razzista. Nganso non è stato aggredito in quanto medico, Nganso è stato aggredito in quanto persona di pelle scura. Ben venga l'espressione di massima solidarietà e la richiesta di "un’adeguata tutela ai professionisti della sanità mentre esercitano la loro professione", ma qui il discorso è davvero un altro. E possiamo parlarne perché Nganso è, prima che un medico, un uomo impegnato nel sociale, che da tempo si espone non solo sui social ma anche come ospite in diverse trasmissioni televisive nazionali e ha addiritturo promosso un festival contro le disciminazioni (DiverCity). Ma non sempre è così, non tutte le persone che subiscono aggressioni a matrice razziale hanno la possibilità o la voglia di esprimersi. Chissà quante volte Alika Ogorchukwu è stato insultato o aggredito prima di venire barbaramente ucciso per strada, prima che gli venisse per sempre tolto il diritto di parlare, di essere se stesso, di vivere. 

La teoria del piuttosto che e la semplificazione

Il "piuttosto che" dietro cui si è maldestramente nascosto l'aggressore del dottor Nganso è l'esempio più lampante della teoria di questa grave forma di razzismo interiorizzato che affligge la nostra società. "Piuttosto che farmi curare da una persona di pelle scura, continuo soffrire". Un concetto che possiamo definire figlio dell'atteggiamento di quel bambino che, di fronte al segretario della Lega Matteo Salvini tra la folla fuori da Montecitorio, se ne uscì con la frase "non vogliamo gli extracomunitari" sentendosi rispondere dal leader del carroccio "numero uno! Numero uno!" (cercate il video sul web, che non dimentica nulla). Chiedete a un bambino di 10 anni chi sono gli extracomunitari e non vi saprà rispondere. O al massimo vi darà una risposta sbagliata o approssimativa. Chiedete all'aggressore di Nganso perché non si è fatto curare da un medico di pelle scura, e non saprà dare una risposta razionale. Gratificare l'ignoranza e la semplificazione del pensiero non porta altro che a un deterioramento sociale sempre più difficile da risolvere.

E la soluzione non può essere quella di bendarci per non vedere le differenze di chi ci sta attorno, di chi abita questo mondo con gli stessi nostri diritti. La soluzione non può che essere il contrario, ovvero quello di cominciare ad aprire gli occhi su un problema reale e quotidiano che non può essere discusso solo a fronte di fatti di cronaca, come in una sorta di rinnovato mito della caverna 2.0, dove la realtà è ben diversa da quella che i più prendono per vera, proiettata a suon di slogan sulle pareti delle nostre vite. 


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